Primo maggio: il tempo e il lavoro dall’Età del Bronzo all’Alto Medioevo fino ai giorni nostri

“Una lezione per tutti!” oggi propone un interessante approfondimento sul concetto del tempo e del lavoro nella storia, a cura del prof. Fabrizio Biglia dell’ITIS “A. Artom”, sede di Canelli.


Il tempo, il lavoro

Il primo maggio si celebra la festa dei lavoratori.

L’intervento di storia di oggi trae perciò ispirazione da questo tema per dipingerne, sempre nel rispetto dello spazio concesso, un quadro complessivo nell’antichità, dall’Età del Bronzo all’Alto Medioevo.

La Mesopotamia sumerica e semitica

Il progressivo sviluppo dei primi insediamenti umani in Mesopotamia comportò che essi divenissero centri non più soltanto di aggregazione, bensì anche di organizzazione gerarchica degli uomini: iniziarono, così, a distinguersi coloro che dirigevano le attività (amministratori laici e religiosi: re e sacerdoti) da coloro che le svolgevano (lavoratori). A partire dal IV millennio a.C., quando le dimensioni delle comunità, dal semplice livello familiare o di clan (i villaggi) si dilatarono a quello articolato dei non consanguinei o sconosciuti (le città), gli uomini liberi, contadini proprietari di mezzi e strumenti di produzione, coltivavano la terra assicurando il cibo a sé, agli amministratori tramite il prelievo “fiscale” e alle altre categorie produttive al servizio diretto degli amministratori (artigiani, scribi, soldati, guardie) tramite la redistribuzione di parte di tale prelievo.

La distinzione tra lavoratori liberi, proprietari dei mezzi di produzione, e semiliberi, che lavoravano al servizio dello Stato con mezzi che esso metteva a loro disposizione, permase nei secoli successivi, ancora all’epoca di Hammurabi di Babilonia (XVIII sec. a.C.) e oltre. Ampiamente diffusi erano anche i lavoratori di condizione non libera, cioè gli schiavi (prigionieri di guerra) e i contadini che, caduti in miseria, venivano vincolati, anche per lungo tempo, a servire i loro creditori con prestazioni obbligatorie fino all’estinzione dei debiti.

Fino allo scoccare dell’Età del Ferro (XII sec. a.C. ca.), anche le attività commerciali rimasero in mano all’amministrazione: i commercianti agivano piuttosto come agenti reali che come liberi imprenditori.

L’Egitto faraonico

In Egitto lo Stato era marcatamente centralista e il suo controllo si estendeva massicciamente anche all’ambito lavorativo. Tutte le attività produttive erano regolate dall’amministrazione e non esisteva la libera iniziativa, al punto che normalmente ciascuno esercitava lo stesso mestiere del padre, dal quale lo apprendeva; le scuole erano rare e destinate unicamente ai figli degli scribi e degli altri funzionari reali (in questo senso, anche per costoro il lavoro, per quanto prestigioso, non era scelto liberamente).

Lo Stato, comunque, identificato con il faraone, perciò “casa” (questo il significato, appunto, della parola faraone in egiziano) comune di tutto i sudditi, provvedeva affinché nessuno rimanesse privo di un sussidio pubblico in aggiunta allo stipendio; data l’importanza che l’aldilà rivestiva nella cultura egizia, veniva fornito a ciascuno anche un corredo funerario.

I lavoratori che si assentavano, sebbene per malattia, erano tenuti a recuperare le ore di lavoro non prestate, che venivano zelantemente annotate dai sorveglianti statali.

Il diritto allo sciopero, che consideriamo una conquista moderna, ha invece radici antichissime: intorno al 1150 a.C. se ne attesta, infatti, il primo caso, condotto dagli operai e dagli artigiani del villaggio di Deir el-Medina (nei pressi della capitale Tebe) che lavoravano alla realizzazione e decorazione delle tombe della Valle dei Re. Essi interruppero i lavori e arrivarono addirittura a occupare i templi della capitale per ottenere la corresponsione dei salari arretrati di mesi.

L’Anatolia ittita

Gli Ittiti, nel II millennio a.C., abitavano la regione geografica occupata dall’odierna Turchia.

Come tutti i popoli del mondo antico, per la maggioranza essi erano impegnati in attività agricole, sia in qualità di liberi contadini proprietari dei loro terreni, su cui pagavano un’imposta in natura o in servizi, sia in qualità di contadini statali alle dipendenze del re.

Gli artigiani, invece, soprattutto quelli addetti alla metallurgia, lavoravano alle dipendenze esclusive dello Stato, dal quale ricevevano in cambio vitto e alloggio. I loro prodotti erano geloso monopolio statale, destinati, pertanto, più a una circolazione interna che esterna (probabilmente, erano ritenute produzioni e tecnologie “strategiche”, da custodire e proteggere dalla concorrenza e dall’imitazione delle potenze rivali).

Infine, anche i commercianti erano perlopiù agenti professionisti alle dipendenze del re e dell’amministrazione regia.

La Grecia e Roma

Le considerazioni generali tracciate per le civiltà precedenti, dove lo stesso popolo con la stessa cultura si identificava anche nello stesso Stato, mal si conciliano alla civiltà greca che, pur riconoscendosi unita nella “grecità” (τὸ ἑλληνικόν, tò hellenikòn, in greco antico), era profondamente divisa in città fieramente indipendenti tra loro.

Tuttavia, limitando l’analisi alle sole città egemoni, cioè Atene e Sparta (che proprio per essere egemoni, lo ricordiamo, giunsero allo scontro nella c.d. Guerra del Peloponneso), potremo dire che esistevano lavoratori liberi (artigiani, contadini piccoli proprietari terrieri, commercianti) nella prima, dove, dal V sec. a.C., anche l’esercizio delle magistrature pubbliche divenne un lavoro retribuito; e lavoratori liberi (contadini e artigiani) accanto a contadini schiavi, gli iloti, nella seconda. A Sparta, poi, l’unico lavoro che si richiedeva di svolgere ai cittadini di diritto, gli Spartiati, era di difendere la patria con le armi, lasciando alle altre categorie sociali il compito di provvedere per loro a tutte le necessità di sussistenza.

A Roma, i lavoratori erano piccoli proprietari terrieri (molto spesso costretti dalle difficoltà economiche a cedere i loro terreni ai proprietari maggiori, normalmente nobili senatori: un fenomeno che nei secoli portò all’estensione dei latifondi sulla scala intercontinentale raggiunta da Roma, e alla concentrazione di immense ricchezze nelle mani di poche famiglie), artigiani e commercianti (ai senatori era fatto divieto formale di esercitare il commercio, considerato degradante, ma sappiamo che spesso essi ricorrevano a società di prestanome per aggirare l’ostacolo).

Accanto a queste categorie, una immensa platea di schiavi (instrumenta vocalia, “attrezzi parlanti” per i Romani…) per nascita o perché catturati in guerra, lavorava negli sterminati latifondi in condizioni crudeli.

Nel IV sec. d.C., per porre un freno alla decadenza dello Stato, ormai diventato Impero, fu tentato, senza successo, di vincolare “per discendenza” il lavoro delle categorie ritenute fondamentali per la società: contadini, battellieri e fornai, coinvolti nel processo di produzione, trasporto e trasformazione delle derrate alimentari, furono costretti a tramandarsi il mestiere di padre in figlio.

L’Europa tra Tarda Antichità e Alto Medioevo

Il tratto distintivo della Tarda Antichità e dell’Alto Medioevo è lo stanziamento di popolazioni barbariche negli ex territori romani. Esse confiscarono i latifondi per dividerli e redistribuirli tra loro: in quelle società, in cui gli uomini liberi costituivano il popolo e si autosostentavano, rimaneva poco spazio per gli schiavi. La condizione schiavile, perciò, sebbene mantenuta giuridicamente, subì un allentamento della sua crudezza e, nei secoli, fu via via abbandonata.

Successivamente, nelle campagne, il sistema curtense ripartì la terra appartenente al padrone, coltivata dai suoi servi con le rispettive famiglie, dalla terra concessa agli affittuari, contadini liberi. L’allentamento della schiavitù fu bilanciato dall’obbligo, per gli affittuari, di prestare al padrone un certo numero di giornate di lavoro obbligatorie (in francese corvées, in italiano antico “angherie”: da cui ancora oggi il significato di vessazione, prepotenza subita da una persona per mano di un’altra).

Artigiani e mercanti, invece, vivevano perlopiù nelle città, dove potevano esercitare liberamente il loro mestiere ma costituivano una minoranza esigua nel panorama lavorativo europeo e fu così ancora per molti secoli a venire.

Alla data in cui scrivo, 28 aprile, è già stata annunciata l’emanazione del prossimo DPCM che prevede di sbloccare il nostro Paese: questa breve e incompleta relazione non poteva che concludersi con un occhio al nostro tempo. Il nostro stesso ordinamento statale, d’altronde, come sancito dal primo periodo che apre l’articolo 1 della Costituzione, è quello di una Repubblica democratica fondata sul lavoro.

I fatti storici mostrati pocanzi offrono spunti per il presente: è possibile e giusto, da sempre, battersi per i diritti lavorativi; è un pericolo sempre possibile (perché già capitato) lavorare in cambio di nessun compenso, oppure di uno minimo: quante persone, nel nostro sistema economico globalizzato, non soltanto in Italia ma anche in altri Paesi sviluppati, svolgono lavoretti mal pagati e riescono a stento a sopravvivere? Quante non sono tutelate nel caso in cui rimangano disoccupate, e vengono abbandonate a se stesse? Quante sono sfruttate nei lavori più umili, in condizioni che rasentano la schiavitù?

Quanto può reggere un sistema economico completamente ibernato, prima di collassare e spargere ovunque miseria e disordine?

È più che mai urgente una riflessione estesa che coinvolga categorie produttive, lavorative, sanitarie e politiche in modo che sia restituita a tutti la possibilità di riprendere a lavorare al più presto e nelle condizioni migliori, sia sanitarie sia retributive.

Buon primo maggio.

Prof. Fabrizio Biglia