Le persecuzioni razziali e i bambini nascosti: Franco Debenedetti racconta la sua storia al castello di Cisterna

Numerosi sono gli aspetti della storia recente che non conosciamo.

Tra questi, la vicenda dei “bambini nascosti” o “hidden child” di cui ha parlato Franco Debenedetti Teglio, con la ricercatrice Nicoletta Fasano, nell’ incontro “I bambini e le persecuzioni razziali” che si è tenuto lo scorso 17 febbraio al Castello di Cisterna.

L’incontro, organizzato dal Polo Cittattiva per l’Astigiano e l’Albese – I.C. di San Damiano con Museo di Cisterna, Ass. “F.Casetta”, Fra Production spa, Cantine Povero distr. srl, Israt e AimcAsti, ha voluto inserire nella “grande storia” le storie individuali.

“Noi storici parliamo di Shoah di chi è morto o sopravvissuto nei campi – ha detto la dottoressa Fasano – Franco, invece, racconta ciò che ha lasciato nell’anima di un bambino vivere quasi tutta la sua infanzia in una situazione molto difficile. Le leggi razziali non sono un riconoscimento alla Germania e vengono emanate solo nel ‘38 perché gli ebrei non sono un’emergenza essendo molto pochi. È un percorso lungo per arrivare a individuare la diversità e metterla fuorilegge con la forza del diritto. Si spezza anche la quotidianità delle famiglie che vivevano e lavoravano sul territorio nazionale. Sono identità fratturate”.

Franco Debenedetti restituisce le conseguenze fatte di paure, timori, perdita di legami, esclusione dalla società.

Tutto ciò ricade con dolore sui bambini trasmettendo angoscia per il futuro, il senso di inutilità, di colpa. L’errore è stato quello di porre l’attenzione solo su Auschwitz e la deportazione senza soffermarsi troppo sui drammi e le fratture causate anche in chi non è stato deportato. Sono gli stessi meccanismi che, nella nostra società, portano all’allontanamento del diverso anche attraverso l’utilizzo dei social. La storia di Franco ricorda quella dei figli della Shoah sui quali ricadeva la responsabilità di riempire dei vuoti. Tutto ciò rimane nei loro ricordi e paure.

Franco non deve esistere in quel periodo, deve essere nascosto, non deve dire il proprio nome, deve raccontare bugie, deve essere l’ebreo errante alla ricerca di un rifugio. Le parole chiave di questa storia sono: dipendenza, rabbia, paura del corpo, reduce.

Franco Debenedetti Teglio, nel raccontare la sua storia, è un fiume in piena. La sua è una una ferita ancora aperta. “Ancora oggi mi sento in colpa, non riesco a difendermi, non devo esistere. Sono stato in analisi per anni e posso anche diventare aggressivo. Però, per prima cosa, devo combattere contro di me. Sono un testimone controcorrente soprattutto contro una certa visione della storia. Parlare solo di orrori, serve solo a chi vuole sentire orrore. Dobbiamo imparare che ognuno di noi ha una parte di male dentro e bisogna imparare a gestirla”.

Franco nasce nel 1937 da una famiglia borghese e, fino a 65 anni, aveva rimosso il ricordo degli anni dell’infanzia. La madre era la figlia di un uomo di potere, il più grande importatore di stoccafissi e baccalà in Italia. Suo padre era uno dei più grandi chimici italiani. Aveva fatto un giuramento alla Patria tanto da aver deciso di lavorare gratuitamente, per qualche mese, dopo l’emanazione delle Leggi razziali. Purtroppo, in seguito alla discriminazione, la famiglia si trovò a vivere in grandi difficoltà. Innanzitutto, i Debenedetti si ritrovarono senza una casa perché era compresa nel contratto di lavoro. Seguirono peregrinazioni in Francia, con l’arrivo dei nazisti, il ritorno in Italia e, successivamente, gli anni della clandestinità. “Per otto anni, non ho avuto una casa mia, amici, eravamo solo dei pacchi postali che sopravvivevano perché aiutati da dei benefattori. Papà era buono ma era stato licenziato e un bambino capisce attraverso l’ansia e l’angoscia che coglie negli adulti. Per otto anni ho vissuto con un fratello che era sempre più bravo. Noi non abbiamo avuto dei compagni ma eravamo chiusi in gabbia. Mio fratello era dominante, protettore, era un poeta, era il più bravo. Io cercavo di essere diverso. In noi c’era “ineducazione” perché non vivevamo con la gente, in comunità. Mio fratello aveva grande volontà di rivincita. Io ho avuto bisogno di 15 anni, dopo la guerra, per non avere bisogno di un appoggio. Io ero come tutti i bambini migranti di oggi che lasciano un passato che non troveranno più. Sono loro che faranno la storia e saranno deformati. In Francia eravamo odiati perché eravamo degli italiani traditori e anche ebrei. Però siamo anche stati aiutati da persone con un coraggio enorme”.

Molti parenti, tra cui due bimbi, furono eliminati ad Auschwitz ma il dolore non doveva ancora lasciarli. Pochi anni dopo la fine della guerra, il padre si suicidò. Troppo il dolore, l’angoscia, la vergogna provati da questo uomo gentile da poter essere sopportati. Purtroppo, subito dopo una laurea brillante conseguita alla Scuola Normale di Pisa, si suicidò anche il fratello. Difficile che un simile passato non lasci tracce. Solo dopo molti anni Franco è riuscito a ricostruire gli anni della sua infanzia grazie ai documenti conservati dalla madre ritrovati in alcune cantine a Torino e Genova dopo la sua morte. Un percorso lungo e doloroso che non è ancora concluso perché, come ha detto Debenedetti: “La memoria non molla ma si nasconde”.