Le Rubriche di ATNews - Comunicare la bellezza

Beppe Colla, con l’esperienza in Borgogna il salto di qualità del nostro mondo del vino

Nella nostra narrazione digitale dei Paesaggi Vitivinicoli di Langhe-Roero e Monferrato, proponiamo un estratto della lunga intervista di Beppe Colla, immortalato da Bruno Murialdo, realizzata da Marcello Pasquero di Radio Alba, i cui contenuti sono stati gentilmente messi a disposizione per il nostro progetto “Comunicare la Bellezza”. La rielaborazione del materiale è a cura di Claudia Solaro.

Beppe Colla, con l’esperienza in Borgogna il salto di qualità del nostro mondo del vino

Beppe Colla, 87 anni, ha sempre vissuto nel mondo del vino.

Io racconto partendo da una mia idea: il buon enotecnico, il grande enotecnico, nasce quando nasce in una famiglia viticola enologica, perché se per tanti anni è estraneo al mondo del vino, è poi difficile innescarsi nel vino. Io sono nato nel vino e ho avuto la fortuna, da un lato, e la disgrazia, dall’altro, di cadere dentro una vasca piena di mosto di moscato. La fortuna è che il mosto ha attutito la caduta e non mi son fatto male, se non il bagno nel mosto. E la sfortuna è il fatto che io sono impregnato di vino persino nel midollo osseo.

Dilpomato nel ’49 alla scuola Enologica, è testimone di un processo di grandissimo cambiamento sociale ed economico avvenuto nell’albese.

L’anno che io mi sono diplomato, nell’albese, gli enotecnici operanti nel vino erano cinque, e cantine e stabilimenti ce n’erano già parecchi. Meno di adesso, ma ce n’erano già, il che vuol dire che enotecnici, in cantina, non ce n’erano, o quasi, perché si pensava che, l’enotecnico, solo per fare vino rosso, non era indispensabile. E quei pochi che c’erano, erano dove facevano vermouth e spumante. Lì, l’enotecnico, era ritenuto più utile o indispensabile. Il che non era vero, però, mentre allora ce n’era troppo pochi, adesso, io dico, ce ne sono troppi.

Adesso, praticamente, non c’è più una cantina che se non ha l’enotecnico proprio in famiglia, il figlio, il nipote, il parente, eccetera, ogni cantina ha un enotecnico dipendente,questo è anche un bene perché sicuramente aiuta a produrre meglio, eliminando tanti difetti che il vino può avere, e aveva, e che adesso ne ha di meno. Questo, sicuramente, è un fatto positivo, anche se c’è troppa concorrenza tra gli enotecnici adesso, essendo così tanti.

La storia della famiglia Colla è legata al vino da oltre 300 anni, giunta fino ad ora con gli attuali “Poderi Colla” di San Rocco Seno d’Elvio.

La mia famiglia, storicamente, è legata al vino: il dato più longevo che abbiamo è del 1712 con i Colla che a Castiglion Tinella producevano moscatello – com’era chiamato allora il moscato – il vermouth e, chissà perché, il nebbiolo. Quindi è dal ‘700 che la mia famiglia è coinvolta nel vino. Io sono nato un po’ dopo, ma sono stato coinvolto lo stesso. E poi ho avuto la fortuna che appena diplomato ho trovato lavoro qui ad Alba, all’azienda, allora, più grande che c’era, la Bonardi, che faceva tutta la gamma dell’enologia, dai vini Barolo, Barbaresco e altri vini, gli spumanti dolci compreso l’Asti Spumante, e vermouth. E quindi la mia esperienza è stata su tutta la gamma dell’enologia, fino al ’56, quando mi sono messo in proprio e lì ho puntato diritto sui grandi vini di Alba, Barolo e Barbaresco. Allora si facevano, ma erano un po’ maltrattati, bistrattati, perché noi eravamo l’Italia, il Piemonte in particolare, eravamo succubi dei francesi, quasi che noi non fossimo all’altezza dei francesi. Effettivamente non lo eravamo, ma la colpa era nostra, non era dei francesi. Loro si erano evoluti in campo enologico molto prima, se pensiamo che in Francia la delimitazione delle denominazioni dei vini e la delimitazione dei terreni delle zone risale al 1850, noi siamo nati un secolo dopo, anzi più ancora. Ma la colpa, ripeto, è nostra e abbiamo sempre subìto la concorrenza francese, soprattutto all’estero, e in parte anche in Italia, senza reagire adeguatamente.

La delimitazione delle zone…

E allora, dalla nostra categoria, dalla nostra età, dalla nostra classe, abbiamo cominciato ad aprire gli occhi, anche se è vero che, ad Alba, la prima delimitazione sulla (FART) della zona del Barolo e del Barbaresco, è del 1936, e che già allora si cominciava a sentire la necessità di delimitare ‘ste zone, i nomi dei vini. Poi, scoppiata la guerra, si è fermato tutto lì; si è ripreso, poi, dagli anni ’60, quando Alba si è svegliata e, grazie al gruppo di enotecnici diplomati all’Enologica, si è intrapreso la lunga lotta, che dura ancora, per la delimitazione delle zone, la classificazione delle zone, perché, da parte dei produttori, si sentiva la concorrenza francese, ma non si capiva che questa concorrenza era favorita dal fatto che loro si erano svegliati cento anni prima di noi in questa classificazione. E io ho avuto modo di avere sotto mano un menù del 1871, quando è stata inaugurata la galleria e la linea ferroviaria Torino-Modane-Lione. E leggendo quel menù, mi son venuti i brividi: menù fatto tra Italia e Francia, prodotto a Torino, cioè fatto a Torino, consumato a Modane, quindi già tutto uno scombussolamento. Ma più che altro, i vini italiani erano in minoranza e con denominazioni arraffate. Le denominazioni di quei vini francesi del 1871 sono uguali, identiche, a quelle che ci sono oggi, delle stesse aziende, come nomi. Noi, invece, avevamo in quel menù: un Barolo, senza annata, senza nomi di chi l’ha prodotto, senza origine geografica. Barolo. Punto. Finita lì. E nei menù che si poteva trovare nei ristoranti in Italia, c’era una classificazione “Barolo vecchio” e “Barolo stravecchio”. Tutto lì. Che era una mancanza assurda . E poi negli altri vini, la stessa cosa. Tolto il Barolo, c’era un vino “Paradiso”, cosa fosse nessuno lo sa. E poi c’era un “Siracus”, perché allora era di moda un moscato passito di Siracusa. Ma non denominato Moscato, “Siracus”.

Italia-Francia, come i viaggi in Borgogna hanno aperto permesso a Beppe Colla di portare dalle nostre parti grandi innovazioni, ispirati alle tradizioni secolari utilizzati nel mondo della vinificazione dai francesi.

La nostra lotta contro la Francia era persa in partenza. Allora. Adesso le cose sono cambiate, anche se la distanza c’è ancora, però, insomma, qualcosa è stato fatto. Questo per dire che noi eravamo gli ultimi della classe, in campo enologico, nel mondo, perché l’unico vino italiano che si esportava in certa quantità, era il Chianti, ma non per il Chianti, per il fiasco, perché era una confezione che gli altri non avevano, quindi si distingueva dagli altri perché era il fiasco impagliato. E quindi eravamo chiusi in un vicolo cieco, di lì era difficile uscire. Io devo dire che ho avuto la fortuna di fare un viaggio in Borgogna nel 1957 o ’58, grazie ad un amico di Nizza, il dottor Bersano della ditta Bersano Carlo, che allora era già abbastanza all’avanguardia,che mi invitò al viaggio organizzato dal Rotary.
Come sono entrato in Borgogna, mi sembrava se fossi andato sulla luna e lì ho capito dove noi eravamo proprio fuori strada. La prima cosa che mi ha colpito, era in primavera presto, loro stavano potando le viti, c’erano tutti giovani, cosa che noi, qui, in quegli anni, i giovani, se potevano, dalla vigna scappavano da Ferrero, da Miroglio, alla Fiat, pur di non restare in campagna. E parlando con ‘sti giovani, il loro orgoglio era di far capire a noi che loro, da tre generazioni, quattro generazioni, sei generazioni, la loro famiglia coltivava quella vigna. Cosa che qui nessuno pensava di dire “sono tre generazioni che coltivano questa vigna”. E’ questa la diversità di mentalità che c’era tra noi e la Francia. E di lì io sono stato colpito dalla Francia, ho seguito moltissimo, tutti gli anni andavo a fare un viaggio, perché capivo che dalla Francia imparavamo molto.

L’innovazione nelle denominazioni

L’altro fatto che non trovo positivo è che adesso non ci accontentiamo più delle denominazioni che sono nate, pensando che creando una denominazione nuova favorisca la vendita, favorisca la commercializzazione, ed è di questi giorni, non tanto nell’albese, però tocca anche l’albese, l’uscita, il voler far uscire a tutti i costi, il moscato secco, che, in termini pratici, in termini enologici, il moscato secco è la bestemmia più grossa che possa esserci, perché i vini aromatici, che sono dolci, devono essere dolci, perché se perdono il dolce, l’aromatico lo perdono. E il moscato quando perdeva il dolce, perché non c’erano le attrezzature adatte, perché non c’era tempo, per tanti motivi, il vino era deprezzato totalmente. Adesso voler puntare sul moscato secco, io penso che sia un errore madornale, non veniale, non piccolo. Eppure è proprio di questi giorni, visto che il moscato è un po’ in crisi, e allora sperano di superare la crisi con questa nuova denominazione. Io, che non produco più moscato, per una mia scelta personale, gli auguro tutti i beni possibili e immaginabili, ma dubito che sia la strada giusta. La strada giusta è: fatelo migliore. Non tanto, fatene meno e migliore. Invece, sempre l’eterno dilemma, i costi, i costi, i costi. Ma tu non superi i costi facendone tanto, aumenti le difficoltà nella vendita. Però, il mondo va avanti così, speriamo in bene. E poi, parlare di vino, è difficile prendere il filo.

Siamo arrivati al 1956/57, lei è andato in Borgogna dove lei ha visto questo mondo molto più avanti a noi, è tornato qua, e cos’ha fatto?

Io ero già uscito da Bonardi ed ho rilevato la Prunotto di Alba, che era un’azienda piccola, poco conosciuta, che ha sempre lavorato bene, però lui non aveva continuità, perché aveva solo ragazze e le ragazze, allora, non andavano in cantina. E quindi io ho rilevato la Prunotto, mi sono messo di buzzo buono e qualcosa l’ho fatto. La cosa più importante che ho fatto, che mi hanno fatto una guerra tremenda, i miei colleghi concorrenti, è quella che io sono stato il primo in Italia, nelle Langhe in particolare, a mettere il “cru” in etichetta, nel 1961. Questo è stato il mio più grande exploit, nel campo enologico, perché adesso voi non trovate più una bottiglia di Barolo o di Barbaresco che non abbia il cru. Magari fasullo, ma c’ha il nome del cru. Ecco, questa è la realtà dei fatti. Allora la guerra che m’han fatto, ho tenuto duro, però ho fatto i cru di tutti i vini: Dolcetto, Barbera, Barolo, Barbaresco, Freisa e quindi questa è stata la più grossa evoluzione che l’enologia albese, in particolare, e italiana ha voluto gratificarmi sul campo, che l’ha aiutata. Perché io, per esempio, quando sono uscito con il cru del 1961, vendere i cru in Italia era come andare a scalare a piedi nudi il Monviso, mentre invece, l’esportazione era facilitata, perché i clienti che trovavi all’estero erano tutti clienti che importavano il vino francese e che quindi erano abituati a ragionare col cru. Capite, la diversità è enorme, perché quello che noi italiani non abbiamo mai capito, che il vino non deve prendere il nome dall’uva, perché se voi ragionate sul vino, i grandi vini che sono nati di per sé, sono tutti nati col nome della terra: il Barolo, il Chianti, il Valpolicella, l’Est Est Est. Insomma, tutti i vini italiani che si sono fatti un nome nel tempo, senza necessità di leggi, sono vini che hanno portati i nomi della terra, della zona nel loro nome del vino. Il cru fa guadagnare di più. Puoi vendere il vino più caro. Allora, lo capisco, finché il cru non ha portato, perché poi c’è stata parecchie aziende, anche importanti, che il cru non l’hanno voluto assolutamente adottare. Poi lentamente sono arrivati tutti. Chissà perché, mah, qualcosa sarà. E questo è un po il mio orgoglio eh, scusatemi. Un po ci va.

Lei è uno dei personaggi che hanno cambiato la storia di questa zona e che l’ha portata agli scenari attuali. Come vedi la situazione attuale?

Per me non è logico che Alba abbia lo sviluppo del turismo che ha, perché ricordatevi che presto ‘sto turismo crollerà. C’è un proverbio piemontese, l’unico proverbio che mai è stato sconfessato, che tutto quello che è stato, ritorna. Allora, adesso abbiamo un turismo esagerato: vado a Barolo paese e, ad ogni porta, c’è un ristorante, qualcuno che fa da mangiare, che da da bere. Vai alla Morra, non parliamone, non c’è più grande ristorante, ma ristorantini e tutti che mangiano, tutti che bevono. Ma st’affare qui è bene perché portano dei soldi, ma è male perché la qualità del mangiare crolla. Io ho fatto una lotta con Degiacomi, ho collaborato a scrivere un libro sulla cucina da salvare, perché noi capivamo che la cucina piemontese, nostra, langarola, che non c’era nei ristoranti, ma c’era solo nelle famiglie che stavano bene, stava perdendosi, perché la gente si perdeva. E adesso siamo al punto più basso. Io non vado più a mangiare nei ristoranti albesi, mi spiace dirlo, ma è così.

Quindi bisogna fare sempre più qualità…

Ma nen qualità, prima ed tut (Ma non qualità, prima di tutto, ndr) bisogna conoscere la qualità, e qui nessuno la conosce, va bene? Questo è il problema. Lei mi porti in un posto, nell’albese, non dico altro, dove posso mangiare degli agnolotti che sono agnolotti. Io la sfido, avanti! Su!

Anlura, adess, e vuriva dì che chiel um porta da caica part, nella Langa, arda ch’a r’è larga la Langa, andua chet peuri mangè in piat d’agnulot bun. Mi, sun nan bun. Alzo le mani eh!

(Allora, Lei sarebbe in grado di portarmi da qualche parte, nella Langa, guarda che è grande la Langa, dove posso mangiare un piatto di agnolotti buoni? Io, non sono capace. ndr)

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Il Progetto “Comunicare la Bellezza: Narrazione Digitale dei Paesaggi Vitivinicoli di Langhe-Roero e Monferrato” è realizzato grazie al contributo di:

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Consorzio Barbera d’Asti e Vini del Monferrato

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Il Progetto ha ricevuto il Patrocinio di:

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Comune di Asti

Comune di Nizza Monferrato

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